boris sollazzoBiografia
Boris Sollazzo è un giornalista e critico cinematografico, uno scrittore e spesso anche un commentatore e radiocronista sportivo. Era un pallanotista di talento, un nuotatore elegante e tenace, è un pessimo giocatore di calcetto che una volta all’anno fa degli eurogol.
Ha scritto tre libri (America Oggi, ed. Alegre con Alessio Aringoli, Diaz- Una storia troppo italiana ed. Fandango, #Chevisietepersi – Il manuale di chi tifa Napoli ed. Fandango) e collaborato – con molte di esse continuando tuttora – con più testate quotidiane (nel corso degli anni Liberazione, Pubblico, Il sole 24 ore, Il Giornale e Il Giornale Off) e periodiche italiane, da Ciak a Riders, da Gli Altri a The Cinema Show e Acqua e Sapone, da Radio 24 a Radio Rock. Ama il cinema da prima di imparare a leggere. Anzi, a parlare. Il calcio da prima di imparare a piangere. Che poi, tifando Napoli, non ho mai dimenticato come si fa, peraltro.

Intervista a Boris Sollazzo

D. Come è stato il tuo percorso per diventare giornalista?
R. Piuttosto casuale, agli inizi. Volevo diventare un magistrato antimafia, ma Diritto Commerciale mi privò delle forze necessarie ad avere ragione della facoltà di giurisprudenza. Amavo scrivere fin da piccolo, anche se odiavo i compiti in classe di italiano, e ho sempre coltivato un’insana passione per la radio. Ascoltavo su Nuova Spazio Radio una trasmissione sul Napoli a Roma, il direttore dell’emittente era il mitico radiocronista Ezio Luzzi. Sono partito da lì, facendo gavetta più di quanto sia umanamente sopportabile (non solo lì, ovvio). Poi sono arrivati i giornali locali, le agenzie, altre radio, i primi pezzi sui quotidiani nazionali. Sempre alla ricerca della notizia, disponibile a ogni ora per ogni necessità del mio caporedattore. Sono passati 17 anni e ho fatto un po’ di tutto: cinema, sport (con il mio sogno di bambino: le radiocronache, tuttora la cosa che credo di saper fare meglio), politica (ai tempi di Veltroni ai vertici del PD, soprattutto), ho anche scritto per una testata per adolescenti.

D. Quali università o master pensi siano più indicati per intraprendere la carriera da giornalista?
R. Non saprei, francamente, forse il master di Perugia della Rai o quello della Luiss. Mi sembra che abbiano un livello più alto, ma ne ho una conoscenza molto parziale e dall’esterno. Sulla scelta della facoltà universitaria, invece, bisogna sentirsi liberi. Nulla ti insegna a fare giornalismo, se non l’esercizio dello stesso. E venire da una facoltà non pensata per esso aiuta a dare un’apertura mentale anche maggiore, quindi non ponetevi barriere. Cominciate a lavorare presto, mentre studiate, altrimenti dopo (spesso) sarà troppo tardi.

D. Come è stato il tuo percorso lavorativo per diventare uno stimato giornalista nazionale?
R. Mah, non so quanto sono stimato. Non saprei come sono diventato “stimato” e “nazionale”, insomma. Credo con il lavoro, con il fatto che non mi tiro mai indietro di fronte ad alcuna difficoltà, con la voglia di migliorarmi sempre. Ma la verità è che siamo in un mondo in cui i posti degli “stimati giornalisti nazionali” sono saldamente nelle mani di un paio di generazioni che non si sognano di lasciare spazio ad under 40 ed under 30. Quindi, per ora, siamo destinati alla marginalità, se si esclude qualche bella eccezione come il mio attuale direttore, Marco Esposito, che è arrivato a Giornalettismo perché è davvero oltre la media per talento, capacità di lavoro e intuito giornalistico. Ma l’impressione è che devi essere un campionissimo per farcela, come lui. Un tempo, invece, le opportunità erano molte di più. Forse anche troppe.

D. Quali sono, secondo te, i virus che in questi anni infettano maggiormente il mondo del giornalismo italiano? E’ davvero a rischio, come sentiamo spesso ripetere, la libertà di stampa? E col temutissimo “bavaglio”, come la mettiamo?
R. Sì che è a rischio la libertà di stampa. Ma non per i Berlusconi o affini o per le leggi bavaglio. No, loro, anzi, stimolano paradossalmente, questa libertà. Proprio mettendola in pericolo così spudoratamente.
Il problema è il bavaglio dell’autocensura, che nasce dalla paura dell’esercito dei giornalisti precari. Loro, spesso, non possono parlare di alcuni argomenti, pena la perdita della collaborazione o una maggiore marginalità. In tutti i campi, ci sono argomenti che sono “pericolosi”. E nessuno protegge quelle decine di migliaia di giornalisti costretti a sopravvivere pagati a pezzo. Con 2,5,10, massimo 25 euro ad articolo. Mentre quelli con il contratto hanno troppa paura di perdere i loro privilegi.
Io, con un po’ di incoscienza, sfrutto la cosa a mio favore. Mi dico “mi pagano così poco che posso permettermi di dire tutto ciò che penso, di tirare fuori tutto ciò che considero importante e interessante. Al massimo cosa perdo? Una collaborazione da fame?”.
E allora me ne frego di uffici stampa ostili, di produzioni che mi hanno messo sulla lista nera, di registi che mi mandano messaggi minatori. In fondo, per fortuna, non faccio mica l’antimafia, come vorrei, o il reporter di guerra. Quindi, il rischio è francamente nullo.

D. Giornalisticamente parlando, quali sono i maestri ai quali ti ispiri?
R. Antonello Piroso, di sicuro. Da sempre l’ho apprezzato, ha portato in tv, sul web, e prima ancora sulla carta stampata innovazione e coraggio. Sa essere alto e basso, rigoroso e ironico. Quando mi ha chiamato a lavorare a Niente di Personale, mi sono sentito come Gattuso che gioca con Maradona. Poi Gianni Minà: le sue interviste mi hanno fatto venir voglia di diventare giornalista, insieme allo sketch sulla sua agenda di Troisi. Fabio Ferzetti, con le sue recensioni, mi ha fatto sognare di fare il critico cinematografico. Il giorno in cui mi ha detto che gli piaceva come scrivevo era come se Maradona mi avesse detto “però, palleggi bene”. Franco Dassisti è un maestro che ho trovato sulla mia strada: con lui cresco, su Radio 24, ogni settimana. Roberta Ronconi è stata fondamentale nel mio primo anno di carta stampata a livello nazionale: senza le sue correzioni, la sua dolce severità, i suoi tagli ora non sarei quella che sono. Michele Brambilla, che mi offrì la mia prima collaborazione “stampata” e il cui “L’eskimo in redazione” ha un posto speciale nella mia libreria. E Vera Fisogni, la caporedattrice. E poi Woodward, ovvio. Come si fa a resistere a quel mito!

D. Quali sono le competenza extra che un ragazzo, a tuo parere, deve acquisire durante l’università per poter fare il giornalista?
R. Annusare la vita di redazione, andarsi a cercare le notizie per strada. Anche se scrive sul suo blog, non si accontenti di ciò che gli dice internet. Parli con la gente, cammini sul territorio di cui parla, guardi ciò che critica, non si limiti a wikipedia e affini. La Rete ti dà solo l’illusione dell’onniscienza, ma tendenzialmente è spesso quello che dice la parola: un qualcosa che cattura molto, ma non tutto. E che magari si lascia scappare il meglio. Non saprei suggerire specifiche competenze: conta leggere, informarsi, essere curiosi. Al nostro giornalismo, ora, mancano anche e soprattutto l’originalità dell’analisi, la bellezza della scrittura (e a volte persino la grammatica e la sintassi), la voglia di raccontare e di uscire fuori dal pensiero dominante. Bisogna muoversi, sempre.

D. Quali sono secondo te i primi passi per un aspirante giornalista? Cosa vuol dire nel 2014 essere un giornalista freelance?
R. Nel 2014 essere un giornalista freelance vuol dire essere precario. Ed è un disastro: è difficile sopravvivere dopo il 20 del mese, sei costretto a mettere a repentaglio la qualità del tuo lavoro perché solo la quantità ti porta al mese successivo. E non ti permette di programmare la tua vita, di fare dei progetti, né, sul lavoro, di coltivare magari inchieste più complesse, difficili, lunghe da costruire. Perché ogni giorno devi fare il massimo per tirar su, nel migliore dei casi, 50-60 euro. Nel peggiore – cioè la maggior parte dei giorni – 20-30. O niente. I primi passi sono sempre gli stessi: essere umili e cercare anche il giornale più piccolo, il sito bello ma povero, la radio locale che ti permette di fare esperienza. Senza farsi sfruttare, ma imparando. Non credete agli stage dove dovete pagare voi o che durano mesi senza prospettive: chi è serio, vorrà trattarvi con dignità. Nel nostro lavoro la gratuità quasi mai si associa alla qualità, non nel lungo periodo. E gli editori lo sanno. Molti, purtroppo, sono disinteressati alla buona fattura dei loro prodotti editoriali. Ma alcuni ancora lottano perché siano per lo meno decenti.

D. Tra i tanti VIP intervistati chi è colui che ha maggiormente colpito la tua attenzione e perché?
R. Sono tanti. Francis Ford Coppola per la sua disincantata lucidità, Eric Cantona per la sua sincerità e il suo carisma particolarissimo, Renzo Arbore perché è un signore, un uomo e un artista meraviglioso. Sergio Bonelli: un mito. Roger Corman, una potenza. Ken Loach: la passione e l’idealismo. Vin Diesel: un cervello straordinario dietro muscoli incredibili. Luca Parmitano: mi ha portato nello spazio. Ma ce ne sono tanti: Paolo Rossi, un mito in tutto; Mathieu Amalric, con cui ho litigato per ben due volte ed è stato bellissimo; Robert Downey Jr e Ian McKellen a San Sebastian,il primo per la simpatia e il secondo per la classe. Quel genio dell’ex Monty Python Michael Palin. Ho capito che è davvero difficile non innamorarsi della semplicità di donne meravigliose come Charlize Theron, o di ragazze come Emily Blunt, il magnetismo di Halle Berry, il fascino di Natalie Portman. Ma ho avuto la fortuna di incontrarne tanti e tante, e se ti piace intervistare qualcuno perché è sempre l’occasione di un incontro unico, raramente rimani deluso. Perché ogni volta sarai entrato in un mondo diverso. Anzi, i migliori non sono conosciuti, come i registi Brett Morgen o Michael Waidleigh, il maestro d’armi di Bruce Lee, l’ex desaparecido Claudio Tamburrini. Troppo spesso capita, però, che in Italia ci si accontenti di banalità. Molti grandi italiani si nascondono, non cercano il contatto e non hanno tutti i torti. Molti giornalisti sembrano interessati più alle proprie domande o a titoli facili che a imparare qualcosa da un altro, o a conoscerlo.

D. Scrivi per molti giornali nazionali, questo ti porta ad interagire con svariate personalità quotidianamente, c’è un personaggio in particolare che vorresti intervistare? Per quale motivo?
R. Diego Armando Maradona. Gli ho solo stretto la mano, scambiandoci due parole. Ma uno come lui ha da raccontarti tanto, e a mio parere può davvero darti mille spunti. E chiunque abbia vissuto più vite è interessante. Vorrei intervistare Sergio Bonelli e Mario Monicelli, poi. Sì, li ho già intervistati, ma se lo rifacessi, vorrebbe dire che sarebbero ancora vivi. E sarebbe bello: mi, ci mancano.

D. Quali sono i tuoi progetti futuri?
R. Continuare a fare questo lavoro. Sarebbe un miracolo, visto che non mi sembra a rischio solo il mio futuro da giornalista, ma il futuro del giornalismo in generale. E il web, finché non avrà i giusti investimenti dalla sua, non potrà essere il futuro di questo mestiere.

D. Il tuo sogno nel cassetto è… ?
R. Allenare il Napoli. Anzi no, fare il secondo a Benitez, che reputo un grande. E dirigere per un anno il Festival di Venezia, ma a modo mio. Dico per un anno, perché se lo facessi a modo mio, non potrei che durare un solo anno. E poter lavorare con maggior tranquillità e rispetto e dignità.

D. Quali consigli, per concludere, ti sentiresti di dare a chi sogna di diventare giornalista?
R. Devo essere sincero? A chiunque direi: non farlo, mio caro. Se poi sei pronto a umiliazioni, difficoltà, ingiustizie e precarietà, più che in ogni altro lavoro, allora benvenuto. Fatti una bella corazza, non ti deprimere mai e lotta, combatti, non mollare mai. Mi piacerebbe dirti che alla fine ce la farai, ma conosco troppi giornalisti bravi che non sono dove meriterebbero. E non parlo di me.

A Boris Sollazzo un in bocca al lupo per la sua carriera artistica da parte di tutta la redazione.

Intervista realizzata da Ilaria Solazzo

Materiale fornito a titolo completamente gratuito da Ilaria Solazzo e Boris Sollazzo per “Altroverso Magazine” ed “Altroverso Radio”.

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